Riporto la conversazione avuta qualche mese fa con Luciano, Luca e Barbara Sandrone oggi – 5 Gennaio 2023 – giorno in cui Luciano ci ha lasciati. Nonostante il blasone della Cantina ho avuto il piacere di condividere un pomeriggio con la famiglia al completo, grazie a Barbara che ha organizzato tutto e ha coinvolto papà Luciano, responsabile della nascita e della crescita di una Cantina che oggi ha poco da invidiare a chiunque. Ribadisco, nonostante il blasone e la fama raggiunti, Sandrone è un affare di famiglia e la stessa atmosfera familiare avvolge i locali e le sale degustazioni: il più grande lascito di Luciano, con la certezza che Luca, Barbara, Alessia e Stefano porteranno avanti la missione di un visionario e un lavoratore indefesso.
A volte è necessario fissare un punto su cui concentrarsi per poter poi tornare a osservare l’insieme e averne maggiore consapevolezza: è quello che ho pensato uscendo dalla Cantina di Luciano Sandrone lunedì 14 Febbraio, dopo una lunga conversazione con Luciano medesimo, il fratello Luca e la figlia Barbara. Luciano è stato uno dei primi a credere nelle Langhe dopo la generazione di Ratti, un percorso iniziato alla fine degli anni ‘70 e definitosi meglio dal 1990, con l’abbandono del lavoro da dipendente e il coinvolgimento totale nell’attività in proprio. Ho conosciuto Barbara Sandrone nel Novembre 2021 e in quel momento, grazie alla disponibilità della famiglia, ho pensato di potermi cimentare in un lungo racconto a più voci dell’avventura di un uomo che ha dato tutto se stesso per le Langhe del Barolo. Ringrazio la famiglia Sandrone nelle persone di Luciano, Luca e Barbara, oltre a Francesca Cioce che mi ha permesso di varcare i cancelli della Cantina poco sotto i magnifici Cannubi.
IBT: Partiamo dalle origini: perchè Luciano Sandrone ha deciso di dedicarsi al Barolo e provare a fare un vino diverso da quello che c’era all’epoca?
Luciano: ho fatto la scuola di agraria ormai tanti anni fa – quando non era come la scuola Enologica di oggi – e poi ho iniziato a lavorare in cantina, prima da Giacomo Borgogno, un’azienda allora tra le migliori, tra le poche di quei tempi. Si lavorava in maniera diversa da oggi ma qualcuno gestiva il vino con lungimiranza, con un occhio per la qualità, e dopo quattro anni con loro ho pensato di voler provare altro. Sono passato in un’altra cantina, i Marchesi di Barolo, e lì ho lavorato fino al 1990. Ho avuto la fortuna anche in quel contesto di avere un ottimo rapporto con uno dei membri della famiglia che aveva una grande passione per la vigna, non solo per il vino, e con lui ho instaurato un dialogo costante su argomenti centrali per il vino. Si sentiva che la Francia era davanti a noi (qualità – lavoro in vigna – prezzi) e allora ho deciso di andare a verificare di persona, prevalentemente in Borgogna, proprio per osservare in prima persona il perché quel territorio fosse avanti rispetto a noi. Ancora oggi la Borgogna ha il vitigno “numero uno”, ovvero il pinot nero, ma un gradino sotto c’è il nebbiolo. All’epoca era diversa anche la Borgogna: due vini opposti, il pinot nero era un vino di struttura, eleganza e tannini importanti ma fini, mentre il Barolo era strutturato e potente ma con tannini molto duri. Il mio obiettivo era di cercare di capire come far diventare il Nebbiolo più morbido, più elegante. Abbiamo provato non solo i vini ma anche i ristoranti e Luca – mio fratello minore – veniva con me, si discuteva dell’argomento, e la cosa che mi ha colpito subito era la resa, il modo di lavorare la pianta: il vino si fa in vigna, poi bisogna chiaramente lavorare il meglio possibile in cantina.
Luca: Credo che la Borgogna sia abbastanza vicina ideologicamente al Piemonte, ovvero ci si è concentrati su un solo vitigno senza assemblaggi e anche il frazionamento della proprietà contadina ricorda le Langhe. Oggi le proprietà non sono rimaste tutte alle famiglie – mentre a Bordeaux questo è sempre successo – mentre al tempo dei nostri primi viaggi la situazione era simile a quella che viviamo noi nelle Langhe. Oggi qui si può parlare di viticultori, a parte pochissime eccezioni, con aziende a dimensione familiare. Quello che incuriosiva era avere il pieno controllo su ciò che facciamo.
Luciano: Da allora, mosso da questa curiosità, ho pensato di voler fare qualcosa di mio, qualcosa che allora ritenevo un gioco: ho acquistato la prima parcella di Cannubi nel 1977 e nel 1978 ho fatto la mia prima vendemmia con quella vigna. Potatura corta, diradamento e, grazie anche alla bellezza dell’annata 1978 – scarsa ma qualitativamente molto buona – ho portato a casa 1570 bottiglie. Sono arrivato ad avere quattro annate di Barolo in cantina, nella stessa casa in cui abito oggi, una sorta di magazzino organizzato come cantina ma con ben poco spazio. Mi sono chiesto: cosa me ne faccio? L’idea, siccome mi piaceva e mi piace andare al ristorante, era di portare in giro le mie bottiglie nei posti di amici e conoscenti, e mi sono anche connesso con altri viticoltori della zona, tra cui uno mi ha proposto di portare le mie bottiglie a Verona, al Vinitaly. Questo collega mi ha chiamato da Verona dopo qualche giorno e mi ha avvertito che c’era una persona, allora un ragazzo, interessata a comprare le mie bottiglie. All’epoca, lavorando in Marchesi di Barolo, ho dovuto aspettare il sabato per poter andare a Verona e conoscere questa persona ovvero Marc De Grazia, un ragazzino con un’enorme passione per il vino che voleva acquistare l’intera produzione. Anche io ero giovane ma per questo primo ordine non mi sentivo sicuro di volergli lasciare l’intera produzione. In contemporanea alla mia trattativa con Marc, un’altra persona si è seduta al nostro banchetto e ha assaggiato il mio vino, proponendomi di acquistare l’intera produzione. In conclusione ho pensato di dare a ciascuno metà della produzione e da lì in poi il lavoro si è sviluppato anno dopo anno. Luca intanto si stava interessando gradualmente alle dinamiche della nostra cantina, mentre Barbara aveva intenzione di tornare a casa: in quel momento ho dovuto scegliere se far diventare la cantina una cosa seria o mantenerla come passatempo. Decisi di dedicarmi a questo progetto acquistando la prima cantina vera e propria (l’attuale sede è la seconda nel 1999). Oggi abbiamo 28 ettari su tutto il territorio del Barolo con 3,5 ettari in Roero. Abbiamo cinque vigneti nel Barolo che danno lo spaccato della zona, sempre secondo la nostra filosofia.
Luca: la nostra idea sta anche nel gestire i cru come un insieme di vigneti e non come tante piccole deviazioni da una materia comune: a differenza della Borgogna dove questo è storia (si è sempre fatto così) da noi il concetto di cru è stato introdotto da Veronelli (colui che ha consigliato a Luciano di vinificare separatamente il Cannubi Boschis, vino che rimarrà da singolo cru perchè è stata la prima vigna acquistata da lui) ma l’idea di Sandrone è un Barolo di assemblaggio (variabile a seconda dell’annata) con all’interno le espressioni delle migliori vigne del Barolo. Luciano ha avuto la fortuna di poter gestire e vinificare nebbiolo proveniente da ogni zona del Barolo e del Barbaresco, riuscendo a comprendere le peculiarità di ciascuna vigna, con in più la peculiarità di vinificare separatamente ogni singola parcella e poi valutarne la singola evoluzione prima dell’unione finale e della fotografia finale, che è poi il nostro Barolo Le Vigne, un vero assemblaggio di vini e non di uve. Oggi coltiviamo il Nebbiolo nei vari appezzamenti, addirittura in qualche appezzamento operiamo diverse vinificazioni (alto/basso – giovane/vecchio – clone) con invecchiamenti separati e alla fine ci troviamo ad avere una dozzina di vini. Scartiamo quelli che secondo noi non sono all’altezza e che non arrivano alla bottiglia, selezionando poi i vini che andranno a costruire il Barolo conclusivo, la migliore espressione possibile del Barolo per ogni singola annata. Il Cannubi Boschis è invece l’espressione della prima vigna acquistata da Luciano. Essere partiti da zero è sia una fortuna sia una sfortuna: sicuramente Luciano e noi abbiamo dovuto lavorare molto per arrivare dove siamo oggi, ma abbiamo potuto scegliere cosa ci piacesse far entrare nell’azienda (quando si poteva fare: oggi è impossibile replicare questo percorso perchè non credo ci sia più spazio). Oggi abbiamo Baudana a Serralunga, Villero a Castiglione, Le Coste di Monforte: sostanzialmente grand cru.
Luciano: spesso i commercianti ci chiedono perchè non facciamo vini da singola MGA, avendone diverse nel nostro portafoglio. Non lo facciamo per principio e per filosofia nostra, che è poi un collegamento storico a ciò che era il Barolo alle origini. Si dice anche che il Barolo di La Morra è, ad esempio, diverso dal Barolo di Monforte, e questo è certamente vero, ma si fanno i confronti tra produttori diversi. Noi invece cerchiamo di replicare la stessa mano su tutte le nostre vigne, le differenze ci sono ma non sono così marcate.
Luca: il bello, per quanto ci riguarda, non è avere una lista di Barolo da singola vigna per quanto buoni possano essere, ma riuscire ad avere un unico lotto di Barolo di grande livello, che non è più una rappresentazione di una singola zona, ma dell’annata di riferimento. A livello commerciale ci dà anche la possibilità di far accedere più persone alle nostre bottiglie: vorremmo evitare di produrre vini che verranno degustati e non bevuti, provando a far bere a più persone il nostro Barolo, anche per far capire meglio il vino e il territorio. Alcune cantine stanno tornando al Barolo di assemblaggio, limitando le etichette di singolo cru.
Luciano: l’obiettivo dichiarato è di fare un vino che piaccia prima di tutto a noi, senza seguire il mercato. Siamo sicuri che sul mercato questo vino piacerà a qualcuno, ma non seguiamo il gusto esterno per dirigere le nostre azioni.
Luca: vorrei sottolineare un altro elemento, ovvero che Luciano ha fatto una scelta peculiare nel periodo storico in cui ha iniziato, cioè restare qui. In quegli anni i giovani andavano nelle industrie, Fiat o Ferrero o Miroglio che fossero, mentre Luciano è rimasto qui e ha creduto nella terra.
IBT: la scelta di privilegiare l’assemblaggio è un passaggio storico che mi ricorda quanto successo con le dimensioni della botte per gli affinamenti, con un ritorno odierno alla botte grande da parte di alcuni produttori che avevano scelto in passato la barrique.
Luca: la botte piccola – barrique o tonneau – è necessaria per gestire al meglio le piccole quantità: quando non si può riempire un contenitore da 10 ettolitri bisogna scendere di capacità, una sorta di obbligo pratico. Nel nostro caso noi vinifichiamo separatamente masse da 40/50 ettolitri che poi vanno a finire nei tonneaux, che peraltro sono un contenitore storico per la zona e per Luciano Sandrone.
Luciano: nostro padre lavorava come falegname e dunque anche come bottaio, mi ricordo perfettamente che quando lo seguivo da bambino e da ragazzo nelle cantine della zona (anni ‘50 e ‘60) vedevo tanti tonneaux, specialmente nella zona di Monforte. Il famoso butal, come diciamo in piemontese, è il tonneau: il fusto.
Luca: la dimensione del tonneau è anche un limite fisico per la movimentazione umana, specialmente in anni indietro in cui la tecnologia meccanica in cantina non era così all’avanguardia come oggi.
IBT: perché ha deciso di rimanere qui?
Luciano: perchè mi piaceva lavorare la terra, lavorare la vigna e ho sempre lavorato anche in cantina, più in cantina che in vigna. Sinceramente non vivrei in città: oltre a questo avevo intuito il margine di miglioramento della qualità del vino, all’epoca in tanti avevano le vigne ma in pochi erano vinificatori, preferendo vendere le uve alle grandi aziende senza seguire più di tanto la qualità. Ho intrapreso una strada diversa, di assoluta qualità, ben sapendo che c’era il margine per fare qualcosa di diverso. Negli anni ‘80 inoltre è iniziato a crescere il turismo in zona, un altro aiuto per noi: i primi svizzeri, invece di andare in Borgogna, venivano qui nelle Langhe, attirati dalla qualità del vino e anche dal prezzo interessante.
Luca: posso riferire un esempio personale relativo alla mia attività come degustatore della DOCG, attività che ho iniziato con i vini dell’annata 1990. All’epoca c’erano circa 4 o 5 milioni di bottiglie di Barolo e bisognava andarsi a cercare le bottiglie ottime. Oggi il potenziale numerico è circa tre volte e quando torno dalle degustazioni dico sempre a Luciano di quanto il livello medio si sia alzato tanto, così come di eccellenze ce ne sono tante. Questo è un risultato che si deve anche a Luciano.
Luciano: parlando sempre di numeri, quando ho iniziato da Borgogno la Cantina produceva circa 400.000 bottiglie di cui la metà era Barolo Chinato. Dai Marchesi di Barolo i numeri erano più importanti con ottime vigne di fianco a vigne meno importanti. Il Cavaliere Giacomo Borgogno andava in Roero, a Valmaggiore, a comprare uva e vino e da lì ho imparato a conoscere il Nebbiolo, riconoscendo il grande valore di quella vigna. Ecco anche il motivo per cui ho deciso di andare in quella direzione: Valmaggiore è il Cannubi del Roero, tanto che il prezzo del Nebbiolo del Roero si faceva in base alla qualità del Valmaggiore. Un punto di riferimento che anche oggi è ben saldo.
Barbara: quando ci siamo avventurati nel Roero, prima acquistando le vigne da tanti proprietari diversi e poi proponendo la nostra etichetta Valmaggiore, è stato difficile far capire il valore di questa zona e di questa vigna in particolare.
Luciano: all’epoca il valore del Roero era compreso da pochi – penso a Bruno Giacosa, Giacomo Borgogno e Franco Fiorina (azienda che non esiste più). Poche aziende interessate, mentre il resto veniva venduto come uva ai ristoratori della zona che poi vinificavano e vendevano come vino della casa. Da allora tanto è cambiato, da quando abbiamo iniziato a parlare e produrre Valmaggiore la situazione è differente, aiutati anche dalla grande qualità di questa zona. Inoltre la maggior parte dei contadini di zona avevano le vigne ma più per completare le proprie attività, affiancando altre produzioni agricole o magari un posto fisso in fabbrica.
IBT: tornando al Barolo, cosa possiamo dire del rapporto con gli altri produttori?
Luciano: è stato un aiuto senza dubbio. Partendo dalle origini, quando ancora lavoravo come dipendente, sono stato aiutato da alcuni contadini anziani per la gestione della vigna e con loro scherzavamo sulla mia ricerca della qualità, quindi il potare corto e i diradamenti. All’epoca bisognava produrre molto per poter guadagnare qualcosa, mentre la mia visione era opposta. Ci ho messo un po’ di tempo per far capire questa filosofia, in special modo facendo assaggiare il vino finale. Con alcuni colleghi abbiamo collaborato parecchio – una decina di produttori – per farci vedere e promuovere i vini, ci si trovava per assaggiare e valutare nuove possibilità. Forse oggi i giovani riescono a farlo, anche perché le aziende hanno un volume di lavoro differente. Barbara: oggi magari è possibile incontrarsi all’estero, un’evoluzione delle attività delle aziende vitivinicole. È cambiato il mondo ed è cambiato il paradigma della nostra attività, dovendo gestire tanti aspetti differenti. Da vigneron siamo diventati imprenditori, nonostante non sia un aspetto sempre piacevole.
IBT: abbiamo nominato spesso la Borgogna: oggi il Barolo come si pone di fronte a questo gigante dell’enologia mondiale?
Luciano: oggi siamo messi bene – tralasciando il fattore prezzo – e forse lo sanno anche i borgognoni. Siamo cresciuti molto tutti, i vini sono buoni. La zona delle Langhe offre molto, anche nella ricezione, per cui il privato viene a trovarci per tanti motivi, sottolineando che la cucina locale è cresciuta di qualità.
Luca: penso che i cambiamenti in Borgogna siano dei minimi adattamenti a quelle che sono norme codificate da secoli, una sorta di aggiornamento. Noi siamo passati dal 1990 a oggi a triplicare la zona di produzione del Barolo, la suddivisione delle MGA è stata fatta da poco. Anche in Borgogna la zona di denominazione si è ampliata salendo sulla collina e mantenendo le vigne alla base, disboscando e allargando la zona. Barbara: in Francia, dati alla mano, si stappa maggiormente Barolo dei corrispettivi della Borgogna, vini che sono considerati più da investimento e da collezione. Il prezzo del Barolo consente di acquistare più bottiglie e poterne stappare subito una o più. Sono bottiglie che non si comprano più per bere ma per conservare e investire, mentre il Barolo ha ancora un’attrattiva di gusto, così come il paesaggio delle Langhe e l’accoglienza. Quando eravamo bambini in paese a Barolo c’era una sola famiglia a occuparsi dell’accoglienza (la famiglia Brezza, attiva tuttora) mentre oggi i ristoranti sono tanti tra cui molti stellati, per cui vediamo una crescita territoriale importante. Il rischio è di poter diventare commerciali, ma credo che sia sufficiente avere giudizio. Rispetto a quando ho iniziato io in azienda, il consumatore estero ha maggiore consapevolezza della zona, mentre anni fa il Piemonte era ignoto o comunque poco conosciuto, con la Toscana ben salda nella mente della persona che avevo di fronte. Penso principalmente al Piemonte delle Langhe, mentre altre zone stanno iniziando oggi ad avere un appeal sul turismo mondiale.
IBT: cosa pensate che possa capitare al Barolo nel futuro?
Luciano: Dipende da noi. Abbiamo la fortuna di avere un vitigno che dà ottimi risultati in una zona ristretta: il Nebbiolo di qui è unico, così come il Barolo (e ovviamente il Barbaresco). La zona è questa e per quanto ci riguarda è già occupata a sufficienza.
Luca: oggi è impossibile replicare il percorso di Luciano, contando che è riuscito ad acquistare un pezzo di Cannubi da dipendente, quindi senza disponibilità economiche infinite. Non c’è spazio, così come non ce n’è in Borgogna. Anche i Negociant – vinificatori ed imbottigliatori di uve altrui, spesso con risultati eccellenti – stanno rischiando di sparire, proprio perché l’appezzamento resta in famiglia o viene acquistato a prezzi vertiginosi. Vogliamo evitare il rischio che il contadino non sia più il padrone della propria terra. Parlando di Sandrone, restiamo comunque sulla qualità e le nostre poche etichette, non allarghiamo ad altri vitigni, cercando di dare il massimo con le vigne che abbiamo. Luciano ha sempre lavorato i tre vitigni autoctoni in purezza, proseguendo nel solco della tradizione.
Luciano: Ad esempio, il dolcetto deve essere quello di una volta, con l’eleganza e la finezza tipiche della nostra Cantina. Abbiamo cercato le vigne più adatte, vigne in quota con belle esposizioni, sul tufo. Anche il Dolcetto è fatto come il Barolo Le Vigne, cioè un assemblaggio di ciò che ci rappresenta di più. Alcuni produttori ci hanno spesso chiesto perché non mettiamo Nebbiolo al posto delle nostre vigne di Dolcetto, visto che si tratta di posizioni invidiabili.
Luca: sul globale dell’azienda il Dolcetto è praticamente venduto a prezzo di costo, ma la nostra (e di altri) è una missione affinchè ci sia e sia disponibile, facendolo al meglio delle nostre possibilità. Abbiamo una vigna a Monforte con una piccola cascina annessa: quando abbiamo comprato l’appezzamento la vigna era di Nebbiolo, così abbiamo deciso di toglierlo e di metterci la Barbera perchè ci dava maggiori garanzie di eccellenza messa in quelle condizioni privilegiate. Sul Cannubi verso Cerequio abbiamo una vigna di Barbera circondata da vigne di Nebbiolo: questo perchè secondo la nostra esperienza quella determinata posizione può dare un grande contributo alla Barbera ma non dà garanzie di eccellenza costante per il Nebbiolo.
IBT: la responsabilità del contadino sta dunque nel prendere dal terreno il massimo dell’espressione con il vitigno adatto.
Luca: esatto, e per questo evitiamo anche le etichette di ricaduta come il Langhe Nebbiolo, sempre cercando l’eccellenza che per noi corrisponde al Barolo o a Valmaggiore. Ciò che non ci rappresenta non viene messo in vendita: gli scarti dei nostri assemblaggi escono dalla cantina.
Luciano: ho imparato nel mio lavoro prima con Borgogno e poi con i Marchesi di Barolo che la qualità della vigna è fondamentale, girando per le vigne e osservando il lavoro dei miei datori di lavoro. Oggi si punta molto sul Nebbiolo da Barolo, a volte tralasciando la giusta aderenza del vitigno all’appezzamento adatto. La tutela del territorio passa anche da qui.
Luca: bisogna anche sottolineare che abbiamo avuto una lunga serie di buone annate che ha favorito il Nebbiolo anche in posizioni meno vocate. La piovosità media è più o meno la stessa ma abbiamo meno nevicate d’inverno e la pioggia si concentra in pochi eventi violenti, torrenziali, e questo causa un utilizzo dell’acqua da parte della vite differente. Annate come la 2014 o la 2018 – più piovose – danno come risultato una forbice qualitativa più ampia arrivando a farsi considerare scadenti, ma è una valutazione su cui non concordiamo. Riuscendo a interpretare l’annata e con belle posizioni, anche in queste annate sono emerse diverse eccellenze. In commissione DOCG, assaggiando tanto Barolo alla cieca, ho avuto modo di provare con mano questa situazione, con un livello qualitativo ampio. La sensazione che ho avuto con questa annata 2018 è di vini ben fatti anche da un punto di vista tecnico, un po’ acquosi, tannini già abbastanza morbidi: bevendoli oggi il risultato è ottimo, anche se forse lo standard qualitativo è inferiore rispetto alla media. Probabilmente questo è un pregio considerando bottiglie di fascia medio-bassa ma porta insoddisfazione con bottiglie più importanti: il consumatore medio sarà soddisfatto anche per il grande numero di bottiglie disponibili. Questo è il risultato dell’aver piantato Nebbiolo in maniera indiscriminata e non avere il coraggio di chiudere i rubinetti quando l’annata non è eccezionale. Di contro, l’annata 2018 consentirà ad un grande numero di appassionati di vino di assaggiare bottiglie subito pronte, con una discreta eleganza, e il “rischio” è che con bottiglie di ingresso ci si possa divertire, mentre su bottiglie importanti o su bottiglie pensate per l’affinamento in cantina le incertezze sono molte.
IBT: vorrei soffermarmi ora su un vostro progetto, probabilmente il più importante della Cantina e tra le scoperte rilevanti del Barolo, ovvero il Barolo Vite Talin, con la sua pianta di Nebbiolo differente da tutte le altre.
Luciano: lavorando con vigneto con Luca nei suoi primi passi, ho notato due piante poco distanti l’una dall’altra diverse per quella che era la mia esperienza. Era sicuramente Nebbiolo, ma un Nebbiolo particolare che ho seguito per tutta la fase vegetativa e produttiva: grappoli più piccoli, acini più piccoli, sempre con le fattezze di un Nebbiolo. Abbiamo raccolto quei 12/14 grappoli e li abbiamo vinificati in un contenitore di vetro per renderci conto delle differenze: un vino strutturato, in bocca ricordava un Nebbiolo importante. La seconda annata abbiamo avuto lo stesso risultato, così abbiamo deciso di chiamare Anna Schneider, ampelografa e ricercatrice di esperienza, per farle vedere queste piante. Anna ci ha seguiti da subito per via della passione per il suo lavoro, ha fatto alcune analisi visive e non ha potuto confermare che fosse Nebbiolo. Ci ha consigliato di seguire le piante e di avere attenzione per gli eventuali cambiamenti, come abbiamo fatto per molti anni. Inoltre abbiamo preso degli innesti per farne piante nuove in un posto nuovo, per evitare inquinamento di polline, e lo abbiamo fatto nel giardino di casa: da 20/25 gemme a un piccolo vigneto di studio su cui fare dei ragionamenti. L’analisi del DNA aveva all’epoca dei costi enormi, era anche il periodo del miglioramento genetico del Nebbiolo presso il CNR e alcuni fondi erano disponibili ma non per piante malate come le nostre, avendo quattro virosi non letali ma comunque ascrivibili a malattie.
Luca: oggi l’analisi del DNA è ancora costosa ma si vanno ad analizzare una trentina di tronconi di materiale genetico che danno una certezza quasi assoluta dei risultati. Per questo motivo abbiamo fatto l’analisi di questo vino prima di metterlo in commercio con la scritta Barolo in etichetta: ci siamo permessi il “lusso” di fare l’analisi del DNA e Anna Schneider ha confermato che geneticamente le piante sono Nebbiolo. Le differenze sono sostanziali come produzione e comportamento della pianta, abbiamo piantato due vigneti lontani da altre colture per evitare virosi, un lavoro enorme e certosino. Quando ci siamo accorti che enologicamente avevamo tra le mani un vino interessante, siamo andati a reimpiantare una vigna con questo clone nella stessa vigna in cui avevamo trovato le piante, ovvero la vigna di Le Coste a Barolo. In origine il vino che ne veniva fuori aveva un tannino fuori scala e un comportamento differente dal resto del nostro Nebbiolo, e i numeri parlano chiaro: peso medio di molto inferiore sia nel grappolo sia negli acini, numero di acini inferiore con rese naturali sotto il chilo per pianta.
Luciano: abbiamo capito da subito che sarebbe stato un grande dispendio di risorse e tempo, ma comunque ci abbiamo creduto, anche per dare un segnale in quel momento storico in cui la direzione era opposta, ovvero su un Nebbiolo molto produttivo ma standard, differente dal concetto di qualità che avevamo e abbiamo in mente. La volontà di fare qualcosa per noi stessi, un piacere e un’idea che partono da noi.
Luca: il Vite Talin non può piacere a tutti, è un vino diverso da qualsiasi Barolo – che è poi la sua prerogativa principale. Lo si vede dai numeri e poi nel vino finito, con una concentrazione peculiare, gli antociani sono più vicini ad una Barbera che a un Nebbiolo. La lavorazione è completamente differente, avendoci messo molte vendemmie per trovare un sistema per trarne un vino da proporre.
Luciano: ho sempre detto che se non si fosse rivelato Nebbiolo avremmo dovuto eliminare tutte le piante, proprio perché noi lavoriamo con soli tre vitigni. Abbiamo introdotto un sistema di vinificazione personale. Un grande aiuto ce lo ha dato Alessia, mia nipote, che sta continuando a seguire questo progetto: nella sua tesi di laurea ha lavorato al risanamento di questa pianta e stiamo moltiplicando alcune piante sane per verificare con il tempo se il comportamento è lo stesso delle piante malate.
Luca: vogliamo capire se sono le virosi a dare un contributo fondamentale oppure se è proprio la pianta in sé a essere diversa. Potremmo infatti, con piante sane, registrare questo clone, cosa che non possiamo fare con la pianta malata proprio perché portatrice di virus. Un altro elemento da sottolineare è la differenza di crescita del frutto: nella vigna di Vite Talin le differenze sono macroscopiche anche a occhio nudo, dal germogliamento che varia parecchio da pianta a pianta, nonostante siano figlie della stessa madre. La variabile all’interno della vigna è enorme, ma la mia idea è che questo sia dovuto alla presenza dei virus che condiziona il comportamento della pianta, una disomogeneità nella vigna che forse non è ottimale ma è intrigante. Una situazione bizzarra e unica: un clone variabile. Spieghiamo meglio: quando si pianta una vigna di Nebbiolo è importante creare una variabilità, con cloni differenti con caratteristiche differenti per avere una vigna eterogenea, organizzata spesso a filari. Ci è capitato nel 1985 di piantare una vigna nei Cannubi con tre cloni e una selezione massale, utilizzando poi differenti portinnesti che ci hanno portato ad avere 24 combinazioni, un progetto seguito anche dall’Università di Torino per quindici anni proprio per capire la variabilità del portinnesto in uno studio longitudinale. Questo però non deve diventare uno strumento di vendita, ma fa parte della nostra passione e del nostro credo: ci tengo a sottolinearlo.
IBT: Siete contenti dei vostri vini?
Luciano: Sì, molto. Si cerca sempre di fare meglio, è ovvio. Quello che abbiamo sempre cercato è di avere un margine di miglioramento e, anzi, di andarlo a cercare. É un grande stimolo, specie perché nel nostro lavoro non esiste una ricetta pronta, ogni anno bisogna rifare tutto da capo. Quando si lavora con il meteo è impossibile avere un metodo unico. Ne parliamo anche molto tra noi, per arrivare al risultato che ci soddisfa di più. Ci succede spesso quando assaggiamo alla cieca i nostri vini durante la vinificazione.
IBT: Perchè il Barolo è migliorato?
Luca: la coltivazione della vite ha fatto passi importanti. Nel Dopoguerra si doveva produrre e nella maggior parte dei casi il viticoltore era un agricoltore misto, non potendosi dedicare completamente alla vigna. Bisognava mangiare e il vino era un alimento come altri. Anche la difesa dalle malattie è andata avanti, la conoscenza di tutto ciò che circonda la vigna e la vite. L’agricoltore deve conoscere il ciclo dei parassiti, dei funghi, di ogni metodo per debellare questi problemi. In questo momento forse il biologico serve a vendere e non tanto a produrre. In viticoltura la conoscenza si è ampliata e si possono utilizzare prodotti in maniera mirata, ad esempio il rame. Sono arrivate malattie (come la flavescenza dorata) che si possono soltanto controllare e il disboscamento gioca a favore della tutela della vigna, pur sembrando controintuitivo. In questo momento il nostro margine deve essere investito nella vigna, nella gestione della stessa per arrivare ad avere vini perfettamente in linea con la vigna. Il nostro obiettivo è di avere vini con residui assenti.
IBT: Per voi cosa vuol dire fare il Barolo?
Luciano: Lavorare bene in tutti i modi, fare un prodotto che sia di nostro gusto e che rispetti le caratteristiche del Nebbiolo, il suo colore e il suo tannino. Io sono partito per giocare e lentamente la Cantina ha preso piede, era impensabile – senza una lira – poter costruire questa azienda. Prima di tutto la volontà e ovviamente la fortuna, ma anche il lavoro. Il mio obiettivo iniziale era di portare la mia famiglia più spesso al ristorante…uno sfizio, ma poi la cantina ha raggiunto obiettivi importanti.
Luca: La nostra soddisfazione è anche di avere vigne vocate sia nel Barolo sia a Valmaggiore, certamente conta la fortuna ma anche la conoscenza di Luciano per le vigne con acquisizioni fatte in tempi non sospetti, quando ancora si poteva scegliere.
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