ROMANO DAL FORNO VALPOLICELLA SUPERIORE 2004
Chi mi segue da tempo conosce il mio affetto per Romano Dal Forno, cantina impossibile da replicare altrove: Romano e i figli Michele, Marco e Luca (che ho avuto l’onore di conoscere di persona) mi hanno regalato uno dei pomeriggi più intensi della mia esperienza enoica, una struttura che non sfigurerebbe a Bordeaux sostenuta dall’incessante lavoro e da un’umiltà rara. Luca mi ha accompagnato per ore facendomi toccare con mano come la famiglia ha ottenuto enormi risultati pur producendo soltanto due tipologie di vino (l’ultima annata di passito Vigna Serè risale al 2004): da una parte l’Amarone (qui recensione dell’annata 2012) e dall’altra il Valpolicella Classico (qui recensione dell’annata 2012).
Per entrambi i vini il procedimento è simile: appassimento delle uve nel solaio della cantina (dalle dimensioni impressionanti) e lunga permanenza in botte. Denominatore comune l’estrazione importante, così come l’attaccamento a un vigneto fuori dalla zona classica ma che, per me, resta inarrivabile per qualità e longevità. L’annata 2004 è considerata buona perchè ha ristabilito la qualità dopo un 2003 di siccità. I vini di Romano Dal Forno godono di longevità fuori scala, non mi aspetto un vino calante nonostante i 17 anni dalla vendemmia. Tutt’altro.
Come per i vini di una certa età che vado ad assaggiare, anche con questa piccola meraviglia faccio una cronistoria. Ho aperto la bottiglia intorno alle 9.00 del mattino, il tappo si è purtroppo spezzato in due parti ma senza lasciare residui di sughero nel vino. Per il resto non ho notato difetti sostanziali. Appena versato, il vino ha avuto un momento di stasi e chiusura, di sicuro dovuto ai tanti anni in bottiglia: conoscendo la cantina, credo che questo vino sia stato messo in commercio intorno al 2010. Colore impossibile da replicare, con un bordo rubino e un corpo porpora, fragola e ciliegia e tutte le sfumature che ci stanno in mezzo.
Ore 11.00
L’estrazione importante si avverte con la canonica austerità dei vini della Cantina, austerità che si riverbera in tante piccole declinazioni fruttate e non. La parte rossa è corposa e costituita da ciliegia, amarena, echi di fragola e qualcosa ai limiti dei mirtilli, senza però toccare l’espressività accesa di questi ultimi. Tutto rimane avvolto dall’eleganza e dalla solidità, un monolite che pare inattaccabile se non smosso da tempo e cure. Lentamente emergono note terziarie di legno scuro (per intenderci, non note di botte) e cacao, un cacao amaro intorno all’85%, poi caffè in grani e tabacco, un tabacco scuro da sigaro caraibico. Impossibile descrivere tutte le sfumature avvertibili, qui entriamo nel campo della soggettività con tutti i pregi e limiti del caso. Note affumicate e speziate di pepe nero e radice di liquirizia. L’assenza di note dolci è quanto mai un pregio.
Intenso e rotondo, nonostante la gradazione importante non ci sono tracce di alcol, quanto di una struttura invidiabile in cui dominano freschezza e tannino, la freschezza che si va a sostituire alla sapidità, una sapidità più speziata che minerale. Arduo compito definire le note: se da una parte si ribadisce la parte rossa e scura con ciliegia, amarena e marasca, dall’altra le note più vegetali di legno, cacao amaro, caffè in polvere ed echi di radice di liquirizia si rincorrono senza tregua. Un campo di battaglia che non assomiglia a un brutale scontro tra vichinghi quanto una astuta schermaglia navale programmata in ogni dettaglio. Al timone l’ammiraglio Romano Dal Forno, ovviamente. Solido e ancora fresco, per nulla seduto.
Lungo e intenso con note di noce, nocciola, caffè in polvere, cacao amaro e una discreta freschezza di frutta rossa, amarena. Un lento prolungarsi, appagante e decisivo. La solidità della ciliegia si mescola alle note più pungenti con una moquette fresca e intensa di indubbio valore, infinita.
Ore 13.30
La complessità è ancora evidente andando a costruire una struttura di sensazioni precise, nette: la frutta rossa si è scurita, la ciliegia è diventata marasca, amarena, con qualche eco di frutta secca. Le sensazioni affumicate e legnose sono più evidenti a bicchiere fermo e si placano a bicchiere ruotato, il legno ricorda da vicino i graticci su cui queste uve appassiscono brevemente. Ancora susina, echi di mora e mandorla con punte di noce.
Ore 19.30
La struttura pare avere trovato un equilibrio, la monoliticità è indubbia e il vino non ha perso di smalto. Appare una discreta nota di tabacco vicina al sigaro di cui sopra ma con maggior vigore, a ricordare una di quelle vecchie tabaccherie delle grandi città dove è possibile acquistare manufatti da tutto il mondo, non solo Cuba. Il goudron appare a completamento dell’evoluzione terziaria, un filo di catrame in una susina ben matura, senza dolcezza residua.
Per concludere: vino meraviglioso da mille e una notte proposta da una delle mie cantine preferite d’Italia. Sottolineo oltre a tutto ciò che ho già scritto il rispetto per l’uva che non viene mai maltrattata nonostante l’estrazione, l’appassimento e la lunga permanenza in botte. L’uva è ancora nel bicchiere, si avvertono le vinosità che tutti i grandi vini hanno, quelli che non giocano sulla mistificazione di alcune caratteristiche (ad esempio con botti coprenti o blend dubbi) quanto sulla sincerità e umiltà nel dire “questo è il massimo che siamo riusciti a fare quest’anno”. Non posso che applaudire, come sempre, a Romano, Luca, Marco, Michele e famiglia. Averli incontrati è per me motivo di grande orgoglio.
IBT 95
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