Risulta impossibile per ogni appassionato di birra o vino dire di non aver mai incontrato questa parola, BRETT, o per sentito dire o per diretta esperienza con una bottiglia, che sia di vino o di birra. In entrambi casi le caratteristiche saltano subito al naso, essendo il Brett un esserino tanto piccolo e sconosciuto quanto determinante nel modificare per sempre le caratteristiche del prodotto in cui prolifera.
Partiamo dalla base: il Brett, o meglio il Brettanomyces, è un genere di lievito che si sviluppa in varie forme con nomenclature differenti. Il suo nome deriva dalla sua scoperta avvenuta nei lavoratori della Carlsberg nel 1904: benché il laboratorio fosse a Copenhagen, in Danimarca, lo studioso che fece la scoperta stava studiando le birre Ale britanniche, da cui deriva il nome, ovvero fungo britannico.
Le specie di Brettanomyces che ci interessano sono le Anomalus e le Bruxellensis, entrambe responsabili della creazione di spore denominate Dekkera, nome che ormai è sinonimo di Brettanomyces Bruxellensis, la specie più comune, e quindi di Brett tout court.
La prerogativa principale del Brettanomyces Bruxellensis è ovviamente la sopravvivenza che avviene all’interno del liquido, ovvero vino o birra, dove il fungo si riproduce e da questa riproduzione hanno origine gli odori e i sapori che vanno a modificare irreparabilmente il prodotto. Alcuni studiosi di enologia hanno dichiarato che una minima dose di questo fungo può dare un contributo favorevole alla causa (fare vino buono), ma superata la soglia di tolleranza gli effetti sono piuttosto negativi. I fenoli volatili prodotti dal brett sono vari, la spiegazione chimica è su Wikipedia ed evito di citarla per intero, non essendo lo scopo dell’articolo.
I profumi, o meglio gli odori, causati dal brett sono vari: sudore, formaggio, cavallo, stalla, cerotto, antisettici, un insieme di sensazioni non certo positive all’interno di un vino. La vita di questo fungo avviene nel legno, per cui si tende a indicare la botte come responsabile, una casa accogliente per il brett che poi si andrà a trasferire nel vino. Non è sufficiente imputare alla scarsa pulizia di una cantina questo effetto negativo, quando alla difficoltà di stanare il brett nel suo nido e farlo fuori per evitare che vada a contaminare il vino.
Il biossido di zolfo pare essere un rimedio, così come il dimetilcabonato utilizzato in combinazione con la solforosa. Allo stesso modo, è difficile evitare che il brett vada a contagiare l’intera apparecchiatura di una cantina, con conseguenti gravi difficoltà nel produrre vino pulito.
Se il brett (o l’eccesso dello stesso) è considerato un difetto per un vino secondo gli standard del canone, non si può certo dire lo stesso nel mondo della birra: tutt’altro. Esiste infatti una nicchia di produttori che sfruttano il brett per caratterizzare a fondo i propri prodotti, una prerogativa che dal Belgio si è diffusa in tutto il mondo. Oggi bere una birra “brettata” non è un problema, ma anzi i prodotti che adoperano il brett come un ingrediente della ricetta sono molti.
Partiamo dalla storia: il brett fa parte della tradizione belga di produzione della birra, dove la fermentazione era spontanea per via della necessità di mantenere la birra più a lungo possibile (non esistendo la conservazione in frigorifero). Ogni villaggio aveva un proprio produttore di birra perché facente parte dell’organizzazione sociale, come in Italia ogni contadino aveva qualche filare di viti da cui trarre il vino per il sostentamento dei membri del nucleo familiare. La pratica di vinificare per vendere è successiva, così come in Belgio per la birra. La fermentazione spontanea ha dato vita a prodotti oggi noti come farmhouse ale, Lambic, kriek, gueuze, faro, etc, tutti stili con una personalità spiccata.
Il brett va a inserirsi in questa tradizione, non avendo la possibilità di controllare la fermentazione e soprattutto mancando analisi tecniche precise si può pensare che il brett sia stato responsabile in parte di queste birre, come lo è oggi, quando i birrai odierni si danno da fare per studiare e replicare queste birre, cercando però di seguire il gusto odierno.
Oggi le birre “funky”, ovvero connotate dai sentori di cui sopra, sono richieste da una piccola nicchia di consumatori (la birra artigianale è una minima frazione della birra industriale), tra cui anche il sottoscritto quando necessita di qualcosa di divertente da analizzare e, perché no, differente da tutto il resto. Intendiamoci, non sono birre “andate a male”, ma con un carattere preciso e spigoloso. Posso annoverare alcune splendide bevute con birre degli italiani Cà del Brado, EastSide, Extraomnes, Loverbeer, senza elencare i produttori stranieri che si stanno inventando tante birre diverse, sfruttando il brett come carattere acquisito e non unico stile. Da non perdere la classica Orval, in cui il brettanomyces modifica lentamente il carattere con gli anni di affinamento in bottiglia.
Concludendo: che il brett sia unico è palese, che però dal brett si possano avere bevande golose io ne sono sicuro. Spero di avervi incuriosito a provare qualcuna di queste bevande per avere un’idea di cosa possa fare un fungo invisibile.
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