Ho incontrato un paio di volte Giovanni Arcari nella sua cantina, Arcari + Danesi, e in entrambe le occasioni il tempo non mi ha permesso di analizzare le scelte alla base dei suoi vini, dovendomi concentrare sulla degustazione della sua declinazione di Franciacorta, così distante dalle altre versione da rimanere un pianeta a se stante. Giovanni mi ha dato uno spunto su un mio report e ha trovato il tempo di una lunga conversazione telefonica in cui, finalmente, ho avuto modo di entrare a fondo nel mondo SoloUva.

Intervista a Giovanni Arcari - Arcari + Danesi

Gli spumanti di Arcari+Danesi e SoloUva non contengono zucchero. Gli altri sì, dallo champagne in giù. Perché fare qualcosa di diverso? Perché non tentare di ricopiare il modello francese o di qualche rinomata cantina di zona (o del TrentoDoc) per assicurarsi un futuro soddisfacente e magari profittevole?

Non è andata così. Giovanni è una persona seria e competente, ma soprattutto è una Persona, ovvero un insieme di desideri, timori, personalità, esperienze al centro di un proprio ecosistema, un ecosistema che vive anche nella cantina che ha creato negli ultimi venti anni. Partito come commerciante di vino, ha lasciato la precedente occupazione per dare vita a un progetto unico. Benché tutte le cantine siano uniche, questa lo è in percentuale maggiore (“più unica”, direbbe un noto politico nonché Cavaliere), riuscendo a non copiare nessun altro modello ma inventandone, o meglio recuperandone, uno vincente.

Intervista a Giovanni Arcari - Arcari + Danesi

La conversazione con Giovanni è stata lunga e complessa, il mio arduo compito è dunque quello di darne atto in questo articolo, con la speranza di dare vita a un dialogo continuo con voi Lettori e con Giovanni, che anticipatamente ringrazio.

IBT: Da che cosa parte il modello SoloUva?

GA: Il modello SoloUva ha diversi punti di origine, primo tra i quali la totale assenza di zucchero nella produzione del vino. Spesso, analizzando Metodo Classico di altre aziende, ci si ritrova con concentrati di zucchero enormi di poco inferiori a quelli utilizzati per le bevande zuccherate made in USA. Siamo stati costretti a chiederci se questo fosse un modello replicabile anche da noi, in Arcari + Danesi, e non ti nascondo che lo abbiamo usato per il nostro T2008, il primo vino fatto qui. Da quel vino in poi abbiamo però deciso di togliere lo zucchero dalle nostre preparazioni, prediligendo l’unico ingrediente nostro al 100%, ovvero l’Uva, la nostra Uva.

Parte del raccolto in vendemmia viene congelata e immessa nelle bottiglie al momento del tiraggio, in modo da consentire agli zuccheri naturali dell’uva (e non al saccarosio) la creazione, insieme al lievito, della CO2 e dell’alcol. In questo senso è anche possibile e consigliato mantenere in fase di vendemmia un’uva matura da un punto di vista fenologico, evitando le vendemmie anticipate in nome di un’acidità che, a nostro avviso, non è l’unico fattore da considerare quando si fa un vino spumante.

Su questo mi sento di dover tirare le orecchie ai produttori italiani: in Francia, nello Champagne, le uve vengono raccolte a 9 gradi di alcol, l’uva ha dunque un’acidità elevata e l’utilizzo di vin de riserve e barrique serve a smorzare questa incredibile acidità, dando poi vita a vini di sicuro freschi ma comunque godibili. Molti italiani hanno preso alla lettera questo metodo, raccogliendo l’uva in anticipo per garantire tutta questa acidità, sfruttando la barrique, dimenticandosi però che le uve per lo Champagne nascono e crescono a 1200 chilometri a nord rispetto alla Franciacorta (e al Trentino/Alta Langa): si va a snaturare completamente l’uva e alla fine il vino spumante non sa di uva, ma sa di zucchero, ovvero di ciò che rimane dello zucchero dopo il lavoro del lievito in bottiglia.

Se, per quanto ci riguarda, l’uso dello zucchero è superato, la maturazione fenologica è necessaria per avere un vino che sappia di vino, un vino che sappia di uva, la stessa uva da cui è prodotto, anche a distanza di anni dalla sboccatura. Solo il frutto portato a maturazione può portare un corredo aromatico di tutto rispetto. Inoltre, con la nostra uva già matura, l’alcol è a 12% e l’apporto “amplificatore” dello zucchero è superfluo.

Intervista a Giovanni Arcari - Arcari + Danesi

IBT: Il lievito, questo sconosciuto: quale è il tuo pensiero a riguardo?

GA: Nelle cantine di Metodo Classico si sente spesso dire che il lievito lavora per anni, e più è lunga la permanenza sui lieviti più le caratteristiche aromatiche di questi sarà marcata, andando a creare un grande vino. Questo non è vero: il lavoro del lievito dura pochi mesi, dopodiché il lievito muore e resta come deposito. Questo deposito non ha grandi rilasci di aromi o altro, la percentuale di incidenza sul vino finale è molto limitata. Le nostre permanenze sui lieviti non sono in funzione dei lieviti ma del vino stesso che, come altri vini da invecchiamento, ha bisogno di tempo per crescere, migliorare e acquisire nuove prerogative.

L’aroma di pane, di crosta di pane, di caramello, non è dovuto al lievito: si tratta invece del risultato delle reazioni di Maillard sullo zucchero (eccolo di nuovo) e probabilmente piace a molti perché è facilmente riconoscibile, ma non c’entra nulla con l’uva da cui il vino dovrebbe essere prodotto. 

É la stessa vicenda del Nebbiolo in barrique, a mio avviso: il Nebbiolo ha tannini dolci, andandoci ad aggiungere la forza di una barrique (anche usata) la dolcezza della vanillina e delle altre sostanze del legno va a coprire il tannino del Nebbiolo, creando un nuovo vino che però con il nostro amato Nebbiolo ha ben poco da spartire. 

Quindi? Quindi il lievito deve poter fare il proprio lavoro sull’uva e non sullo zucchero messo da noi umani: lo zucchero non ci piace perché adultera il risultato finale e va a modificare del tutto la nostra uva, uva che abbiamo coltivato con fatica sulle nostre colline. Io non me la sento di fare questo torto alla mia uva! Ho pertanto deciso di abolire lo zucchero dalle mie bottiglie.

Intervista a Giovanni Arcari - Arcari + Danesi

IBT: Cosa potremmo invece copiare dai cugini francesi?

GA: l’unica cosa su cui penso abbiamo da imparare sul serio è la base del modello economico legato al vino. I francesi hanno un modello remunerativo già dalla produzione dell’uva, andando a creare valore dalla natura del loro orto che, permettimi di dire, è di gran lunga inferiore al nostro. L’uva italiana è decisamente migliore rispetto a quella francese perché le nostre condizioni geografiche, la latitudine, il mare e altri fattori, volgono a nostro favore.

Il punto è il valore che diamo a questa uva: in Francia il modello premia il produttore di uva, in Italia invece la speculazione va a colpire lo stesso, dandogli le briciole per il lavoro di un anno. Non è raro trovare uva da vino a €1 al chilo, uva sottocosto o comunque coltivata con pressappochismo e tanta meccanizzazione per limitare i costi, andando poi a minare l’intero sistema di produzione del vino.

La mia uva costa circa €6 al chilo (ma tanto non la vendo!): la speculazione colpisce i miei colleghi che svendono la propria uva per paura di non riuscire poi a venderla o a vendere le bottiglie prodotte. Inoltre i Consorzi determinano il prezzo di acquisto dell’uva, andando a minare la qualità stessa del frutto con un prezzo troppo basso, un sistema di cui ovviamente si approfittano le grandi aziende con disponibilità di denaro ma che, nonostante questo gioco a loro favore, hanno grandi fatturati ma utili scarsi.

L’uva va remunerata dalla base e tanto più verrà ben valutata, tanto più il vino italiano prodotto con quell’uva avrà un valore economico ma anche un valore intrinseco, un valore percepito dal consumatore di tutto il mondo.

Vediamo il caso mio personale: io produco circa 30.000 bottiglie nelle annate ottime, nelle annate scarse circa 20.000, ma nonostante il numero possa sembrare basso non ho intenzione di ampliare la produzione acquisendo nuove vigne o comprando uva altrove. Voglio dare al cliente la certificazione che tutto il vino contenuto nelle mie bottiglie sia prodotto qui, da noi. La mia cantina gira intorno a questa cifra di bottiglie, un numero che mi consente di dormire sonni tranquilli e mi dà da vivere degnamente. Certo, non avrò la barchetta o la villana da qualche parte in Sardegna, ma di certo sono tranquillo e soprattutto sono realizzato.

Questa cantina è nei miei progetti da sempre e ci ho messo venti anni per arrivare a questo punto, dove posso permettermi di fare quello che voglio con il mio vino e di non scendere a compromessi con nessuno, neanche con me stesso. Tutto è esattamente al proprio posto e io vivo tranquillo. Direi che non è male, per un agricoltore, o no? Il vino non va svenduto e non va “adulterato”, o si rischia di perdere tutto il rispetto per se stessi.

Il discorso è ancora lungo, ma concludo: il metodo SoloUva consiste in una certificazione gratuita, aperta a tutti, e spero possa essere un progetto per tanti produttori di Metodo Classico. Io ci spero davvero.

E anche io, sapete? Grazie a Giovanni Arcari per il suo tempo, con la speranza per tutti di avere il piacere di incontrarlo per fargli qualche domanda. Perché solo dalle domande arrivano le risposte.

Il manifesto Solouva è consultabile qui.